Il rumore. Il rumore degli strumenti che rilevano la radioattività, quel gracchiare continuo, opprimente, desolante e terrorizzante.Il rumore della paura e della morte, che segnala la presenza di un killer silenzioso, letale e invincibile. Il rumore di Chernobyl.

Il 26 aprile 1986 alle ore 1:23 circa, presso la centrale nucleare V.I. Lenin, situata in Ucraina settentrionale (all’epoca parte dell’URSS), a 3 km dalla città di Pryp”jat’ e 18 km da quella di Černobyl, a causa di una serie di sfortunati eventi, di scelte irragionevoli e dell’incompetenza del personale, il reattore principale della centrale esplode, facendo a pezzi il pesante coperchio di grafite che lo proteggeva. Una nube radioattiva si alza nel cielo e inizia a diffondersi per tutta l’Europa Orientale, lambendo anche il nostro Paese. E’ una catastrofe inimmaginabile, ma l’Occidente viene a saperlo tardi e quasi per caso, perchè le autorità sovietiche minimizzano, mentono, depistano. E’ una storia di martiri ed eroi, vittime e carnefici.

Co-prodotta da HBO e Sky (da noi arriverà in cinque puntate il 10 giugno, su Sky Atlantic), e creata da Craig Mazin (il cui curriculum desta sgomento, essendo composto per lo più da pessimi film comici, tra i quali spiccano i due atroci sequel di The Hangover) Chernobyl colpisce duro e lascia segni indelebili. Tutti sappiamo quel che successe, ma questa consapevolezza non fa che aumentare il terrore e il disagio nel vedere da un lato l’impotenza dell’uomo nei confronti di una forza che non sa controllare, dall’altra la sua stolta ottusità, che si traduce in ordini confusi, giochi di potere, baruffe politiche, mentre tutt’attorno le persone muoiono. E muoiono “male”.

Chernobyl non fa sconti e con coraggio e audacia mostra i corpi distrutti e decomposti dalle radiazioni, le miserabili condizioni in cui si trovano ad operare uomini mandati a morire per una manciata di rubli e un encomio statale. Tutto è precario in Chernobyl: la centrale appare fatiscente e malmessa, le attrezzature tecniche sono inesistenti o improvvisate, impiegati, operai e scienziati non dispongono di nulla se non del proprio coraggio (o incoscienza).

Gran merito della riuscita della serie, sta nell’abile regia del veterano svedese Johan Renck (Vikings, Bates Motel, Breaking Bad) che, senza mai scadere nel melodramma o nel pietismo fine a se stesso, alterna sequenze altamente evocative ad altre “normalizzanti” che, in un contesto così folle e disumano, creano un effetto straniante e sinistramente angosciante. Nel cast, composto per lo più da nomi poco noti al grande pubblico, spicca il terzetto composto da Jared Harris (Sherlock Holmes, Mad Men, The Terror), Stellan Skarsgård (Erik Selvig nel Marvel Cinematic Universe) e Emily Watson (candidata al premio Oscar come miglior attrice protagonista nel 1997 per Le onde del destino, girato assieme a Skarsgård e nel 1999 per Hilary e Jackie) che conferiscono spessore e tridimensionalità ai rispettivi personaggi, scienziati e burocrati (consapevoli) che cercano di trovare la verità sull’accaduto e tamponare gli effetti della catastrofe.

C’è, ovviamente, una netta condanna alla politica di quel tempo (e lo stesso Michail Gorbačëv, Premio Nobel per la pace del 1990, simbolo di perestrojka e glasnost’, non ci fa proprio una figura limpidissima), ma Chernobyl non si abbassa mai al livello dei burocrati del Partito, che pontificano e brindano in sale scrostate, tristi e lugubri, preferendo parlare della gente comune, troppo normale per comprendere la portata di un evento così eccezionale.

Dolente e impeccabile, sinistra e inquietante, Chernobyl rappresenta uno dei punti più alti della produzione televisiva degli ultimi anni. Visione imprescindibile, ovviamente, ma fidatevi, vi resterà appiccicata addosso per un bel po’.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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